Lasciano Milano per Renon di Gosaldo (paese di 18 abitanti), e aprono un’enoteca e un’agenzia di viaggi: «Arrivano da tutto il mondo»Altolà degrado. Ci pensano i cittadini con gli orti - ilBustese.itTurismo, Federalberghi: sostiene Pil, no aumenti imposta soggiorno
Ancora un premio per mamma Novella. E vola in finale per la categoria Curvy - ilBustese.itEdmondo Berselli è stato il primo a cogliere uno smarrimento dentro la sinistra,Professore Campanella incapace di capire ancora riti e parole. L’espansione improvvida di maestri e la loro estinzione pare aver esaurito la formula arbasiniana quanto mai efficaceStando alla massima arbasiniana più che venerati maestri non si può diventare. Ma sarà stato il fine secolo, l’arresto del cosiddetto ascensore sociale, l’avvento dei social e la fine delle ideologie, la nascita della Scuola Holden e la fine (conclamata) di senso delle facoltà umanistiche, fatto è che ad un certo punto, come in uno sciabordare convulso che dal Novecento allagava il pianerottolo degli anni Duemila, in Italia non si videro in giro per la strada, in libreria e sui giornali altri che non fossero venerati maestri.Merito dell’impresa va addebitato per buona parte a Silvio Berlusconi che attorno e contro alla sua ben nota limitante statura riuscì a raccogliere l’armata Brancaleone dei transfughi del secolo breve.La voce di BerselliIl primo ad accorgersi di questa sorta di mutazione a somma zero, ma a rischio di alta comicità fu l’impareggiabile e sempre indimenticabile Edmondo Berselli che ai venerati maestri dedicò un affilato e divertito pamphlet.Quando era ancora un piacere pescare tra le idiozie dell’intellighenzia, Berselli con Venerati maestri. Operetta immorale sugli intelligenti d’Italia (Mondadori, 2006) diede voce in verità a un popolo tutto di sinistra che di quella sinistra (da non confondersi con la più nota e mal pensante certa sinistra) non capiva più i riti e le parole e non ne riusciva più a trovare e verificare nemmeno un senso in quel fare ormai disinvolto e pure disinibito. Erano gli anni dell’«Abbiamo una banca», ma anche delle campagne moralizzatrici.All’avanspettacolo televisivo di personaggi e celebrità si opponeva così un far cultura, politica e giornalismo tutto in posa militante e severa. Tutto «Repubblica» e casa, convinti che il decennio trascorso tra nani e ballerine fosse ormai giunto a totale esaurimento.Invece era l’alba dell’avvenire, sarebbe stato un lunghissimo trentennio che ancora non dà alcun segno di cedimento. Il postmoderno allineava così dal Tenerone al Gabibbo in guerra frontale contro Franco Cordero e Pietro Scoppola.L’effetto BerlusconiBerlusconi aveva cambiato per sempre la testa degli italiani con la televisione privata, ma la sensazione è che i primi a cui l’aveva cambiata furono proprio gli intelligenti. In questo caravanserraglio confuso e complicato anche i più sempliciotti apparivano così come luci nella notte, offuscando il disincanto fuori tempo massimo dei veri intelligenti. Era all’inizio di una crollo, un lancio senza paracadute nel vuoto che avrebbe mutato per sempre le categorie culturali del nostro paese.Quel chiassoso movimento misto di venerati maestri e soliti stronzi finì per specchiarsi nel sorriso smagliante e ortodontico di Silvio Berlusconi. Uno specchio deformante che restituì i limiti di uno statista minore tra i minori, ma anche i limiti di una scuola giornalistica ed editoriale un tempo autorevole e innovativa come quella di «Repubblica», ma incapace ormai di riprodurre al suo interno nuove ed efficaci voci. I venerati permanevano divenivano tali in un infinito esistenziale mentre gli stronzi incastrati in un ruolo da eterne seconde linee giocavano di banale rimbalzo.Il ruolo dei venerati maestri fu così appaltato in seduta stabile a inediti secolari maestri, qualcuno ancora in vita e qualcun altro già da tempo agli alberi pizzati tenuto però in rilievo per conseguita memoria: lui sì che avrebbe saputo cosa fare, lui sì che avrebbe saputo cosa dire. Palesando nel frattempo una mutazione del venerato maestro in santo subito che coinvolge ad oggi figure certamente apicali della politica e della cultura italiana, un tempo divenivano senatori a vita, ora al massimo possono ambire ad un annuncio funebre firmato Luca Guadagnino e Carlo Antonelli.Gli antaDa allora assistiamo impavidi a un profluvio inarrestabile di festeggiamenti funebri di varia e più o meno ortodossa natura. Festival, convegni e serate in onore dei canonici cento anni dalla nascita. Ma noi dove eravamo cento anni fa che era tutto così bello e tutto così giusto? Ma come, era ieri che festeggiavamo i suoi ottanta e siamo già a cento? E come li portava bene i novanta. Cento anni, un secolo. Un secolo che passeremo a ricordare il secolo precedente e così non si sa per quanto ancora.I nati negli anni quaranta del Novecento saranno gli ultimi appartenenti a una cosiddetta classe intellettuale, quella politica se si escludono alcuni democristiani, qualche socialista un po’ délabré e sopra tutti Rino Formica, è già da tempo purtroppo estinta. In compenso oggi non si invecchia più. Gli anta sono ormai terreno di pascolo per giovani in senso esteso. Oggi si muore giovani anche da vecchi.«In Italia c'è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di bella promessa a quella di solito stronzo. Soltanto a pochi fortunati l'età concede poi di accedere alla dignità di venerato maestro» diceva Alberto Arbasino, ma l’espansione improvvida di venerati maestri e la loro conseguente estinzione unita al blocco dell’ascensore sociale pare aver esaurito una formula quanto mai efficace.I motivi sono molteplici a partire dalla giovane promessa che così giovane non è più e mai più lo sarà. Altro che i tardivi ventisette anni di Arbasino (sempre lui) lamentati da Italo Calvino. Oggi al massimo possiamo concederci un banale quanto sintetico A paraculo a indicare il giovane quarantenne di flosce speranze che si affaccia sulla scena letterario mondana deprivata di ogni aspettativa oltre che di denaro.La mutazioneDiranno i semplici: intanto ci si posiziona. Già e una volta posizionati lì si resta fino a che la ghirba tiene. Per quanto riguarda le altre due categorie siamo di fronte invece a un’inquietante mutazione data da un imprevedibile accoppiamento per cui il solito stronzo, in assenza di panorami possibili e di pubblici compiacenti, ha finito per auto venerarsi e in parte anche per auto degenerarsi, dando così forma al venerato stronzo in surplace permanente. Ovvero colui che si venera in un onanismo macilento e a tratti losco dentro al quale tutto è ancora possibile. Basta crederci e basta che a crederci siano quei pochi utili stronzi ora non più idioti. Perché in questa evidenza dello stronzo, non va però dimenticata o sottovalutata la fondatezza del venerato che comunque esiste e sussiste in tutta la sua sudaticcia eleganza e astuta pervicacia. Perché seppure in pochi e seppure stronzi, quel poco di venerazione (quasi tutta auto-prodotta) tiene almeno ancora in vita, per quanto in coma farmacologico, un’intera idea di cultura fatta di contenitori, indotti, accessori vari tutti, festival e tipografie comprese.Portinai in livrea ricollocati al piano nobile di un palazzo a cui è stato concesso il bonus facciate che si fingono maestri rifacendosi a un tempo passato perché incapaci di immaginarsi un tempo contemporaneo. Da bravi stronzi la venerazione la teniamo stretta tutta per noi, in attesa di tempi migliori, di un wifi più stabile e di uno smoothie più digeribile.© Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediGiacomo GiossiGiacomo Giossiscrittore e critico
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