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Avellino, la curva dei contagi per ora non cala Nel marzo 1989,analisi tecnica Berners-Lee ideò la prima bozza di un protocollo semplificato per diffondere e connettere informazioni a cui il CERN rispondeva con “Vague, but exciting”. Un fondamentale passo per sfondare le mura accademiche e rendere internet parte delle nostre vite era compiuto. Esiste ancora fiducia nel potere della collettività che il termine annacquato community, talmente dilatato da richiudere tra le maglie tutti e nessuno sembra aver perso?Una nota, un'etichetta bianca in cui si scorge la scritta CERN con un avviso scritto in pennarello arancione era un monito in capital letters: "This machine is a server… DO NOT POWER DOWN!". Era l'adesivo attaccato al NeXT di Tim Berners-Lee, il computer che l'inventore del Web usò per mettere a punto la sua creazione. «Sono stato molto fortunato ad avere un ruolo importante ma ci sono molte altre persone coinvolte e ciascuna di loro avrebbe potuto ricoprire lo stesso ruolo determinante», ha raccontato Berners-Lee nella raccolta di saggi Linking the World's Information. Essays on Tim Berner's Lee's Invention of the World Wide Web.Un passo indietro. Internet ha origine negli anni Settanta come strumento di interazione militare, poi come supporto di verbosi scambi accademici resi più leggeri da mail, server e da qualche nottambulo in possesso di capacità tecniche adeguate. Almeno fino al marzo 1989, trentacinque anni fa. La vera rivoluzione, si deve all’intuizione dello scienziato informatico Tim Berners-Lee che di giorno lavorava al CERN e, nel tempo libero, inventava nuovi modi per connettere le informazioni in un’unica rete. Era il primo passo per il Web la cui prima versione, nxoc01.cern.ch fu ultimata a fine 1990.Nel marzo 1989, Berners-Lee ideò la prima bozza di un protocollo semplificato per diffondere e connettere informazioni a cui il CERN rispondeva con “Vague, but exciting”. Seppure altre parti fondanti che hanno portato alla democratizzazione e alla diffusione ad ampio spettro di internet, i browser per esempio, un fondamentale passo per sfondare le mura accademiche e rendere internet parte inscindibile delle nostre vite era compiuto. «Non credo che Berners-Lee fosse stato consapevole fin da subito della rivoluzione. Se oggi abbiamo un paradigma di come le informazioni possono essere connesse, lo dobbiamo a lui. Di lì a poco il web sarebbe diventato indispensabile per le nostre esistenze. Quello che è certo è che l’idea originaria fosse connettere tutto lo scibile del mondo, linking the world information appunto» spiega Oshani Seneviratne, assistant professor di Computer Science at Rensselaer al Polytechnic Institute, co-presidente della Web Science Conference e tra le prime studentesse di dottorato al MIT sotto la supervisione di Berners-Lee. TecnologiaLa Gen Z non sa usare il pc, ma non è un problemaAndrea Daniele SignorelliThe dream behind the WebPiù volte ricordando l’origine del Web, Tim Berners-Lee negli anni ha usato la semantica del sogno, «the dream behind the web» tratteggiando i confini di un’utopia collettiva, certamente non l’unica, se pensiamo all’eco di A Declaration of the Independence of Cyberspace, una delle pietre miliari del pensiero legato alla rete, a opera di John Perry Barlow, uno dei fondatori della Electronic Frontier Foundation a tutela dei diritti digitali e fellow del Berkman Klein Center for Internet & Society di Harvard. «Fin dall'inizio, ho sempre voluto che il web fosse una piattaforma per la creatività e la collaborazione» recentemente ha detto Tim Berners-Lee in un’intervista alla BBC. «Il primo decennio del web è stato all'altezza di questa promessa, ma non è quello che abbiamo visto negli ultimi vent’anni». Ripercorrere la storia delle privatizzazioni e del capitalismo digitale è impossibile, possiamo peró leggere le parole di Berners-Lee in filigrana e prendere qualche spunto. C’è ancora spazio per invertire la rotta? «Penso che, nonostante abbia lati negativi e sia il gemello del nostro mondo capitalizzato, il web fornisca ancora una piattaforma per esprimere la propria voce, è uno dei mezzi di comunicazione più potenti, non solo è possibile interagire ma impegnarsi come cittadini attivi» prosegue Oshani Seneviratne.Ora che il web non è più libero da intromissioni capitalistiche, dove è stata la prima crepa? «C'è stata questa importantissima scelta filosofica e politica di considerare il web un luogo aperto libero, fondamentale per la crescita, lo sviluppo e il passaggio di tante persone all'interno di questa nuova dimensione» spiega Emanuele Bevilacqua, docente di Digital Publishing presso l’Università della Svizzera italiana e autore del libro Attenzione e potere. Cultura, media e mercato nell’era della distrazione di massa (Luiss University Press). «Come sempre i nostri pregi sono anche i nostri peggiori difetti. Quando a un certo punto qualcuno ha cercato di trarre profitto dal web, questa idea del gratuito ha comportato la creazione di una cultura che ha paradossalmente favorito solo i grandi player come Google, Meta, rendendo marginali chi produceva contenuti di qualità» prosegue Bevilacqua.Linking the World's InformationsQuando era ora di dare un nome al protocollo che aveva inventato, Tim Berners-Lee aveva scartato l’opzione di mine of information perché l’acronimo MOI, in francese, non corrispondeva a un’idea aperta e partecipata della rete ma rimandava a un io davanti allo specchio che Tim Berners-Lee aveva scartato a priori. A tutto ciò scelse, per tracciare quanti server fossero connessi al web, nemmeno a dirlo, WWW. Un altro punto da recuperare da Berners-Lee che ha creato le basi tecniche per navigare online in modo capillare è l’idea di relazione. Non a caso il primo software che preannunciava il web era “Enquire”, il cui nome era ispirato al titolo di un libro che Berners-Lee leggeva da bambino, Enquire Within upon Everything, un compendio di tutto ciò che ci fosse da sapere secondo i dettami della società vittoriana.L’idea di connettere tutte le informazioni del mondo, Linking the World's Informations citando il titolo di una raccolta di saggi sull’esperienza di Berners-Lee, presuppone una certa fiducia del potere di cambiare le cose da parte di una comunità. «Alla fine degli anni Novanta emerge anche quello che sarà un elemento costitutivo delle dinamiche social. L'accesso come fruitori nella prima fase anche legato alla facilitazione delle interfacce, successivo è l'accesso anche come produttori di contenuti del web. A inizio dei Duemila, il Web 2.0 ha permesso alle persone di entrare come protagoniste dell'industria culturale inserendosi al pari di tutti gli altri attori che fino ad allora avevano potuto più facilmente pubblicare sul web programmando, scrivendo in html, utilizzando sistemi che non erano prima accessibili a tutti» spiega Gabriella Taddeo che insegna Teoria e tecnica dei media digitali e Sociologia della comunicazione presso l'Università di Torino, autrice del libro Social. L'industria delle relazioni (Einaudi). TecnologiaIl ventenne Facebook voleva essere una superapp e non ci è riuscitoSofia MattioliFix you, correre ai ripari«Internet è rotto, come aggiustarlo?» si chiede il giornalista Ben Tarnoff nel libro Internet for The People. The Fight for Our Digital Future (Verso Books) rintracciando nella ragione della progressiva stortura e contrattura dei meccanismi della rete l'equazione “internet is a business” evidenziando i sistemi di privatizzazione e mercificazione che proprio mentre il web entrava in modo capillare nelle nostre case, la rete trascinava con sé. Una risposta interessante è anche quella data dall'esperto di innovazione digitale Valerio Bassan che, nel libro Riavviare il sistema. Come abbiamo rotto Internet e perché tocca a noi riaggiustarla (Chiarelettere) ricostruisce le tappe della promessa mancata di internet e della sua trasfigurazione in un luogo capitalista per proporre vie per rendere la rete una piazza più democratica e aperta.Esiste ancora fiducia nel potere della collettività che il termine annacquato community, talmente dilatato da richiudere tra le maglie tutti e nessuno sembra aver perso? A rispondere è Arianna Caserta, studiosa e critica dei media. «Le community su internet, in realtà, si stanno rafforzando in questo periodo come non mai semplicemente, non sulle piattaforme a cui siamo abituati. Lo ha descritto benissimo il teorico Yancey Strickler con la sua teoria delle Foreste Oscure: internet oggi sembra vuoto, privo di interazione umane – laddove invece tutto sembra regolato dall’algoritmo, da contenuti AI generated e pubblicità — quando invece, silenziose e nel buio, gli utenti si nascondono su piattaforme per creare connessioni umane e creare vere e proprie sottoculture. È lì, in quelle foreste oscure, che sta nascendo la controcultura sul web. Penso ad esperienze come Metalabel, una nuova piattaforma di publishing indipendente e collaborativo che si presenta come il nuovo modello per l’editoria contemporanea decentralizzata, o a mostre d’arte che presentano gli elaborati che gruppi di user hanno realizzato e diffuso nei server di Discord relativi alla loro comunità, la loro famiglia, o squad. La controcultura che parte del web è possibile, e sta avvenendo: semplicemente, non possiamo aspettarci di trovarla su Instagram».© Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediSofia MattioliGiornalista. Ha studiato a Bologna e ora vive a Milano. Collabora con La Stampa, ha scritto per Rivista Studio, D La Repubblica, L'Espresso. È co-autrice di un podcast per Storytel

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